Una camera, due sguardi
Nel 2014, negli spazi di Officine K allora a San Lorenzo, ho iniziato a ritrarre amici, coppie e persone che non conoscevano il foro ma erano disposte a farsi fotografare.
Usavo una piccola camera obscura/foro stenopeico costruita a mano: un oggetto semplice, che richiedeva tempo, scatti di circa 30 secondi, fiducia e una certa dose di curiosità.
C’era anche divertimento in quei momenti: l’imprevedibilità dell’immagine, il sorriso nel guardarsi dopo lo scatto, la complicità leggera di un esperimento condiviso.
Non c’era ancora l’idea di un progetto, ma la ricerca di una presenza reciproca, di uno sguardo che potesse appartenere a entrambi.
Allora tendevo a trattenere le fotografie, come se custodirle fosse un modo per non perderne il significato.
Solo più tardi ho capito che lasciare un’immagine è un gesto di fiducia, un modo per riconoscere l’altro e lasciare che l’incontro continui altrove.
Riguardando oggi quei ritratti, mi sorprende la naturalezza con cui le persone si affidavano alla lente invisibile del foro, senza preoccuparsi del risultato.
Forse perché in quell’attesa condivisa — tra silenzio e curiosità — si creava qualcosa che somigliava più a un incontro che a una fotografia.
Guardandoli oggi, mi accorgo che dentro c’era già tutto: l’attesa, lo scambio, e quella leggerezza che nasce quando la fotografia diventa una forma di relazione, un gioco serio e un modo per conoscersi.
Ancora oggi mi colpisce come, in quei primi ritratti, ci fosse già il seme di tutto ciò che avrei poi cercato: la fiducia, la presenza, la possibilità di restituire attraverso la luce.
Chi entra in una camera obscura o si presta a un ritratto porta con sé un frammento di tempo che diventa comune, condiviso. È forse questa la parte più viva di ogni immagine.












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